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Una nuova terapia genica per l’insufficienza cardiaca

Tempo di lettura: 4 minuti

Sperimentata una terapia genica in grado di invertire gli effetti dell’insufficienza cardiaca e ripristinare la funzionalità del cuore

L’obiettivo resta quello di riparare un cuore compromesso. Dopo le molecole a RNA studiate nell’ambito del progetto europeo Rescue, guidato dall’Italia, entra in scena una nuova terapia genica. Questa, testata su un modello animale di grandi dimensioni, ha dimostrato la capacità di invertire gli effetti dell’insufficienza cardiaca e ripristinare la normale funzionalità cardiaca. Sviluppata da un team di ricercatori dell’Università dello Utah e descritta in uno studio pubblicato su npj Regenerative Medicine, la terapia ha evidenziato un aumento del volume di sangue pompato dal cuore e un miglioramento significativo della sopravvivenza, definito in un articolo come “un recupero senza precedenti della funzione cardiaca”.

Attualmente, l’insufficienza cardiaca è una condizione irreversibile. In mancanza di un trapianto, i trattamenti disponibili si limitano a ridurre lo stress sul cuore e a rallentare la progressione di questa patologia, spesso fatale. Tuttavia, se la nuova terapia genica confermerà i suoi risultati nei futuri studi clinici, potrebbe offrire una soluzione rivoluzionaria, contribuendo a curare il cuore di una persona su quattro, destinata altrimenti a sviluppare insufficienza cardiaca nel corso della vita. 

Il focus dei ricercatori si è concentrato sul ripristino di una proteina fondamentale per la funzione cardiaca, denominata cardiac bridging integrator 1 (cBIN1). Studi precedenti avevano già evidenziato che livelli ridotti di cBIN1 nei pazienti con insufficienza cardiaca erano associati a una forma più grave della malattia, aumentando il rischio di progressione.“Quando cBIN1 è basso, sappiamo che i pazienti non stanno andando bene” – ha affermato Robin Shaw, direttore del Nora Eccles Harrison Cardiovascular Research and Training Institute (Cvrti) presso l’Università dello Utah e coautore senior dello studio. Così ci siamo chiesti: ‘Cosa succede se lo ripristiniamo?”.

Per aumentare i livelli di cBIN1 nei casi di insufficienza cardiaca, i ricercatori hanno utilizzato un virus innocuo, comunemente impiegato nelle terapie geniche, per introdurre una copia aggiuntiva del gene cBIN1 direttamente nelle cellule cardiache. Il virus è stato iniettato nel flusso sanguigno di maiali affetti da insufficienza cardiaca e ha raggiunto il cuore, dove ha trasferito il gene alle cellule. In questo modello animale, l’insufficienza cardiaca porta generalmente alla morte entro pochi mesi. Tuttavia, tutti e quattro i maiali sottoposti alla terapia genica sono sopravvissuti per sei mesi, il limite temporale dello studio. Oltre a bloccare la progressione della malattia, il trattamento ha migliorato parametri chiave della funzione cardiaca, suggerendo che il cuore danneggiato stava iniziando a rigenerarsi.  

Il ricercatore Shaw ha evidenziato come un’inversione di danni preesistenti di tale portata sia estremamente rara. Nella storia della ricerca sull’insufficienza cardiaca, non abbiamo mai osservato un’efficacia simile” – afferma. Mentre le terapie precedenti hanno prodotto miglioramenti della funzione cardiaca pari al 5-10%, la terapia genica con cBIN1 ha mostrato un incremento del 30%, un risultato senza precedenti.

L’efficienza dei cuori trattati nel pompare sangue, uno dei principali indicatori della gravità dell’insufficienza cardiaca, è migliorata progressivamente. Sebbene non abbia raggiunto livelli completamente sani, si è avvicinata a quelli di un cuore normale. Inoltre, i cuori trattati sono risultati meno dilatati e meno assottigliati, presentando caratteristiche più simili a quelle di cuori non danneggiati.  Nonostante gli animali abbiano continuato a essere esposti allo stesso livello di stress cardiovascolare che aveva inizialmente causato l’insufficienza cardiaca, il trattamento è riuscito a ripristinare la quantità di sangue pompata a ogni battito fino a livelli normali.  

“Anche in presenza di stress continuo sul cuore, abbiamo osservato un recupero significativo della funzione cardiaca, accompagnato da una stabilizzazione o riduzione del volume del cuore” – ha spiegato TingTing Hong, professore associato di farmacologia e tossicologia e investigatore presso CVRTI, nonché coautore senior dello studio. Questo processo viene definito reverse remodeling: il cuore torna a somigliare a un cuore normale.

I ricercatori ritengono che la capacità di cBIN1 di recuperare la funzione cardiaca sia legata alla sua posizione centrale come impalcatura che interagisce con molte altre proteine cruciali per la funzione del muscolo cardiaco. cBIN1 funge da centro di segnalazione centralizzato, che regola effettivamente molte proteine a valle – precisa Jing Li, istruttore associato al Cvrti. Organizzando il resto della cellula cardiaca, cBIN1 aiuta a ripristinare funzioni critiche delle cellule cardiache. cBIN1 apporta benefici a molteplici vie di segnalazione – aggiunge Li.

La terapia genica sembra migliorare la funzione cardiaca anche a livello microscopico, con cellule e proteine del cuore meglio organizzate. I ricercatori sperano che il ruolo di cBIN1 come regolatore principale dell’architettura cellulare possa far sì che questa terapia genica apra una nuova strada per il trattamento dell’insufficienza cardiaca, mirato al muscolo cardiaco stesso.

Ora, in collaborazione con il partner industriale TikkunLev Therapeutics, il team sta adattando la terapia genica per l’uso umano e intende richiedere l’approvazione della Fda statunitense per uno studio clinico nell’autunno del 2025. Sebbene i ricercatori siano entusiasti dei risultati ottenuti finora, la terapia deve ancora superare test tossicologici e altre verifiche di sicurezza. Inoltre, come molte terapie geniche, resta da capire se funzionerà su persone con un’immunità naturale al virus utilizzato per veicolare la terapia. I ricercatori sono comunque ottimisti. “Quando vedi dati su animali grandi che sono molto vicini alla fisiologia umana, ti fa riflettere” – conclude Hong. “Questa malattia umana, che colpisce più di sei milioni di americani, forse è qualcosa che possiamo curare”.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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