Secondo i dati raccolti dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il Long Covid interessa ancora buona parte della popolazione. Ecco i numeri
Il Long Covid continua a colpire. Secondo i dati OCSE raccolti attraverso l’indagine internazionale PaRIS, il 7,2% della popolazione over 45 che si rivolge ai servizi di cure primarie nei Paesi membri ha dichiarato di aver sofferto o di soffrire tuttora di Long COVID. Tra questi, il 5,1% presenta ancora sintomi persistenti, segno di una condizione cronica che resta spesso sottovalutata e gestita con difficoltà.
Tra tutti i Paesi OCSE analizzati, l’Italia si distingue per una delle incidenze più elevate: circa il 9% dei pazienti over 45 in assistenza primaria ha riportato sintomi prolungati dopo l’infezione da COVID-19. Ancora più significativo è il dato relativo alla popolazione che ha contratto il virus: il 22,9% ha riferito sintomi compatibili con Long COVID, il valore più alto tra i Paesi europei coinvolti nell’indagine. Preoccupante anche la durata dei sintomi: in Italia, quasi il 4% dei pazienti continua a manifestare disturbi oltre i 12 mesi dall’infezione. Questo colloca l’Italia in una fascia alta di incidenza, subito dietro Norvegia e Islanda.
Il Long COVID – una sindrome caratterizzata da sintomi che persistono per oltre tre mesi dopo l’infezione da SARS-CoV-2 – resta una sfida aperta per la medicina. I pazienti descrivono un percorso clinico frammentato, segnato da stanchezza profonda, dolori muscolari, disturbi respiratori, neurologici e psicologici. Tra i sintomi più diffusi, la fatica cronica colpisce circa un paziente su cinque, un’incidenza doppia rispetto alla media degli altri pazienti. Nonostante l’impatto significativo sulla qualità della vita, il riconoscimento ufficiale del Long COVID è ancora disomogeneo: solo due terzi dei Paesi OCSE adottano una definizione condivisa – come quella proposta dall’OMS o dalla NASEM – e meno della metà ha implementato percorsi di cura strutturati e dedicati.
Le donne di mezza età sono la fascia più colpita
Contrariamente all’immaginario diffuso che associa le complicanze del COVID-19 principalmente alle persone anziane, il Long COVID colpisce più frequentemente le donne tra i 45 e i 54 anni e le persone con un alto livello di istruzione. Il rischio aumenta ulteriormente in presenza di patologie croniche preesistenti. Tuttavia, anche in assenza di altre malattie, circa il 6% dei pazienti riferisce sintomi prolungati dopo l’infezione. A preoccupare è anche l’impatto sul rapporto con il sistema sanitario. Tra i pazienti affetti da Long COVID, solo il 58% dichiara di avere fiducia nel proprio sistema di cura, rispetto al 64% di chi non ha sviluppato la sindrome. Inoltre, uno su tre ha dovuto ripetere più volte le stesse informazioni cliniche, segnalando una scarsa integrazione tra professionisti e livelli di assistenza.
Sul piano lavorativo, i dati della survey PaRIS non mostrano differenze marcate: circa il 13% delle persone con Long COVID è in malattia o disoccupata, una percentuale simile a quella registrata nella popolazione generale con malattie croniche. Tuttavia, l’aspetto più rilevante riguarda la sostenibilità futura dei sistemi sanitari: circa il 3,5% dei pazienti continua a soffrire di sintomi anche dopo un anno dall’infezione. Di fronte a questi dati, l’OCSE lancia un appello concreto: è necessario investire nella formazione degli operatori sanitari, per migliorare il riconoscimento dei sintomi e strutturare percorsi di cura specifici e standardizzati. In gioco non c’è soltanto la salute dei singoli pazienti, ma la fiducia collettiva nella medicina e nella capacità dei sistemi di prendersi cura della popolazione.
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