Serve analizzare 3 varianti genetiche per capire se una terapia ormonale per il cancro del seno può avere o meno successo
È necessario esaminare tre varianti genetiche al fine di valutare l’efficacia di una terapia ormonale nel trattamento del cancro al seno. Questa conclusione emerge da uno studio condotto presso l’Irccs Ospedale Policlinico San Martino di Genova e pubblicato su Clinical Cancer Research. Gli studiosi mirano a identificare la durata ottimale della terapia ormonale con letrozolo, un inibitore dell’enzima aromatasi, somministrato alle pazienti dopo l’intervento chirurgico per la rimozione di un tumore al seno positivo ai recettori per gli estrogeni.
“Oggi le pazienti ricevono il trattamento ormonale adiuvante per un periodo che arriva fino a 7-8 anni” – spiega la coordinatrice dello studio Lucia Del Mastro, oncologa e direttrice della Clinica di Oncologia medica dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino. “Valutare la presenza o meno di queste tre varianti potrebbe aprire la strada alla personalizzazione della durata di tale trattamento sulla base del rischio di recidive e di effetti collaterali e bilanciare al meglio le cure“. Le tre varianti genetiche sembrano correlarsi con un aumento del rischio di recidiva e metastasi del tumore nel corso degli anni. Tuttavia, presentano anche un’incidenza inferiore di effetti collaterali, come fratture o eventi cardiovascolari.
“Questi risultati fanno ipotizzare che le pazienti con queste varianti genetiche producano fisiologicamente una maggiore quantità di estrogeni” – spiega Bendetta Conte, oncologa della breast unit dell’Ospedale Policlinico San Martino e attualmente ricercatrice del Translational Genomics and Targeted Therapies in Solid Tumors dell’IDIBAPS. “Tali estrogeni da una parte riducono l’efficacia della terapia ormonale, portando a un rischio più alto di recidiva, dall’altra diminuiscono anche gli effetti collaterali gravi di tale terapia, come le fratture da osteoporosi” – conclude l’esperta.
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