Nuovo episodio di Conoscere l’Oncologia, la rubrica di Italian Medical News dedicata agli approfondimenti sul mondo dell’oncologia. In questa puntata approfondiamo il tema del tumore del colon, con un focus particolare sulla chemioterapia adiuvante. A guidarci in questo percorso è la Dott.ssa Valentina Daprà, giovane specialista del settore
“Conoscere l’Oncologia” è il format di Italian Medical News dedicato agli approfondimenti sulle principali tematiche oncologiche, con il contributo di specialisti impegnati ogni giorno nella pratica clinica. In questo nuovo appuntamento, accendiamo i riflettori sul tumore del colon e sul ruolo cruciale della chemioterapia adiuvante nel ridurre il rischio di recidiva. A guidarci nell’analisi è la Dott.ssa Valentina Daprà, Assistente presso l’Unità Operativa di Oncologia Medica – Gastrointestinal Unit dell’Humanitas Cancer Center, giovane specialista che ci aiuta a fare chiarezza su approcci terapeutici, prospettive future e strumenti innovativi come il ctDNA.
La seconda neoplasia più frequentemente diagnosticata
Dottoressa, che cos’è il cancro del colon?
“Il cancro del colon è un tumore maligno che origina dalla mucosa del colon, la parte centrale dell’intestino crasso. Solitamente si sviluppa a partire da polipi adenomatosi che, con il tempo, possono trasformarsi in neoplasia invasive. Nel 2024, in Italia, si stimano circa 48.706 nuovi casi di tumore del colon-retto, rendendolo la seconda neoplasia più frequentemente diagnosticata dopo il carcinoma della mammella. La malattia è più diffusa tra le persone di età compresa tra i 60 e i 75 anni, con un’età media alla diagnosi intorno ai 70 anni. La diagnosi precoce e il trattamento tempestivo sono fondamentali per migliorare la prognosi“.
Dopo l’intervento, il tumore potrebbe tornare?
“Circa l’80% dei pazienti con cancro del colon si presenta alla diagnosi con malattia resecabile radicalmente. Tuttavia, nonostante l’asportazione chirurgica completa, circa il 35% di questi sviluppa una ripresa di malattia, che nella maggioranza dei casi (80%) si verifica entro i primi 3 anni dall’intervento chirurgico e, solitamente, entro i primi 5 anni. Questo accade perché alcune cellule tumorali microscopiche possono persistere nell’organismo e, nel tempo, dare origine a una recidiva. Per ridurre questo rischio, dopo l’intervento può essere indicata la chemioterapia adiuvante, un trattamento mirato a eliminare eventuali cellule tumorali residue e migliorare le possibilità di guarigione. Il suo obiettivo è offrire ai pazienti la migliore opportunità di evitare la ricomparsa della malattia”.
Chemioterapia adiuvante: quando è indicata e per chi
Chi dovrebbe fare la chemioterapia adiuvante?
“Non tutti i pazienti necessitano di questo trattamento, ma per molti può fare una grande differenza. Nei pazienti con tumore in stadio III, caratterizzato dalla presenza di linfonodi positivi all’esame istologico, la chemioterapia adiuvante può ridurre il rischio di recidiva fino al 30-40% e aumentare significativamente la sopravvivenza a lungo termine. Anche nei pazienti con tumore in stadio II, se il tumore presenta caratteristiche più aggressive, la chemioterapia adiuvante può essere consigliata per migliorare le probabilità di successo terapeutico”.
“Un ulteriore elemento cruciale nella scelta terapeutica è lo status di stabilità o instabilità dei microsatelliti, che viene analizzato di routine sul pezzo operatorio con tecnica di immunoistochimica. I pazienti con fenotipo instabile (circa il 15% dei pazienti con malattia localizzata) hanno generalmente una prognosi migliore. Inoltre, attraverso il reflex testing è possibile approfondire se il fenotipo instabile sia legato alla sindrome di Lynch, permettendo di attuare strategie di screening e prevenzione mirate per i familiari qualora venisse confermata tramite test germinale”.
Quanto dura il trattamento, quali sono le opzioni disponibili e quali effetti collaterali può avere?
“Le opzioni terapeutiche sono diverse e vengono scelte in base alle caratteristiche del paziente e del tumore. I regimi più utilizzati combinano più farmaci a base di oxaliplatino e fluoropirimidine, oppure fluoropirimidine in monoterapia, a seconda delle esigenze cliniche e della tollerabilità del paziente. La chemioterapia dovrebbe essere iniziata preferibilmente entro 6-8 settimane dall’intervento chirurgico radicale. La durata del trattamento è generalmente di sei mesi, ma studi recenti hanno dimostrato che, per alcuni pazienti in stadio III a basso rischio, tre mesi di terapia possono essere altrettanto efficaci, riducendo gli effetti collaterali nel breve e soprattutto nel lungo periodo. Questi possono variare da persona a persona, ma i più comuni includono una sensazione di formicolio o intorpidimento alle mani e ai piedi (definita neuropatia, soprattutto con l’oxaliplatino), disturbi intestinali come nausea e diarrea, e una maggiore predisposizione alle infezioni.”
Il circulating tumor DNA
Quali sono le prospettive per il futuro?
“Le prospettive future si concentrano sull’integrazione dei dati clinico-patologici con il ctDNA (circulating tumor DNA). Il ctDNA è un frammento di DNA tumorale che può essere rilevato nel sangue e rappresenta un indicatore della presenza/persistenza di cellule tumorali residue dopo l’intervento. Si tratta di una tecnica non invasiva, basata su prelievi di sangue seriati, che permette di monitorare la malattia e individuare precocemente recidive o metastasi, spesso prima delle indagini radiologiche tradizionali. Questa tecnologia potrebbe rivoluzionare la personalizzazione del trattamento adiuvante. Nei pazienti in cui il ctDNA risulta persistentemente positivo, potrebbe indicare la presenza di malattia residua e la necessità di intensificare la chemioterapia per ridurre il rischio di recidiva. Al contrario, nei pazienti con ctDNA negativo, l’assenza di tracce molecolari di malattia potrebbe permettere di evitare trattamenti non necessari, riducendo la tossicità senza compromettere l’efficacia terapeutica”.
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