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L’uso di ultrasuoni contro l’Alzheimer: l’innovativa idea

Tempo di lettura: 2 minuti

L’utilizzo di ultrasuoni focalizzati sembra migliorare l’effetto di un noto farmaco contro l’Alzheimer. Un nuovo trattamento è all’orizzonte

In arrivo una nuova cura contro l’Alzheimer? È quanto emerge dai risultati di un nuovo studio condotto da un team della West Virginia University di Morgantown e pubblicato su ‘New England Journal of Medicine’. A dirigere il gruppo di lavoro, l’esperto Ali Rezai, il quale spiega: “Il trattamento sperimentale prevedeva la creazione di un’apertura nella barriera emato-encefalica con ultrasuoni focalizzati guidati dalla risonanza magnetica per aumentare la somministrazione del farmaco”. Il farmaco in questione è aducanumab.

I ricercatori hanno esaminato tre partecipanti, un uomo di 77 anni, un altro di 59 anni e una donna di 64 anni, tutti diagnosticati con Alzheimer nell’anno precedente. Nessuno dei tre individui aveva precedentemente assunto aducanumab, e nessuno risultava portatore dell’allele APOE4. Per sei mesi, il team ha sottoposto i partecipanti a trattamento mensile con aducanumab mediante somministrazione endovenosa, con una dose gradualmente aumentata fino a raggiungere 6 mg/kg.

L’apertura della barriera ematoencefalica con ultrasuoni focalizzati è iniziata due ore dopo ogni infusione, e la barriera si è chiusa entro 24-48 ore dopo la procedura. I ricercatori hanno applicato gli ultrasuoni focalizzati ad aree con alti livelli di beta-amiloide nel lobo frontale o temporale o nell’ippocampo. Alcune regioni cerebrali dell’emisfero controlaterale sono state utilizzate come controlli. In tutti e 3 i partecipanti la riduzione dell’amiloide è stata maggiore nelle regioni cerebrali oggetto degli ultrasuoni focalizzati.

La riduzione dell’amiloide nel dettaglio

Dal basale alla valutazione a 26 settimane, le scansioni PET hanno mostrato che gli ultrasuoni focalizzati combinati con aducanumab hanno portato a una riduzione dei livelli di amiloide da 224,2 a 115,2 centiloidi nel partecipante 1, da 185,6 a 104,6 centiloidi nel partecipante 2 e da 251,5 a 84,9 centiloidi nella partecipante 3. I partecipanti 1 e 2 non hanno mostrato cambiamenti neurologici, cognitivi o comportamentali alla loro ultima visita di follow-up. Al trentesimo giorno di follow-up, i punteggi dei test cognitivi della partecipante 3 sono diminuiti, ma non si è notato alcun cambiamento neurologico o nell’attività dei punteggi della vita quotidiana.

“Il nostro studio non ha quantificato la penetrazione dell’anticorpo monoclonale e pertanto non si è dimostrato direttamente un potenziamento del rilascio dello stesso. Allo stesso tempo però, i risultati suscitano ottimismo sul fatto che questo approccio al trattamento potrebbe rallentare la progressione della malattia di Alzheimer – affermano gli autori.

Clicca qui per leggere l’estratto originale dello studio.

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