Intervista al dottor Alfredo Corticelli, responsabile dell’ambulatorio per lo scompenso cardiaco presso l’Ospedale Pio XI di Desio. L’esperto approfondisce le complessità della malattia, le più recenti innovazioni terapeutiche e il ruolo cruciale di un follow-up strutturato e personalizzato
Lo scompenso cardiaco rappresenta una delle principali sfide per la medicina moderna, sia per l’impatto clinico sui pazienti sia per il peso che esercita sul sistema sanitario. Con una prevalenza in costante aumento nella popolazione anziana e un alto tasso di mortalità e re-ospedalizzazioni, parliamo di una condizione che richiede un approccio multidisciplinare, personalizzato e sempre aggiornato. Ne abbiamo parlato con il dottor Alfredo Corticelli, cardiologo presso l’Ospedale Pio XI di Desio e Responsabile dell’ambulatorio dedicato allo scompenso cardiaco. L’esperto ci ha aiutato a comprendere meglio le caratteristiche della malattia, le sue principali forme cliniche, l’importanza della diagnosi precoce e i più recenti sviluppi nella gestione terapeutica.
Una panoramica sullo scompenso cardiaco
Perché lo scompenso cardiaco rappresenta una delle sfide più importanti per il sistema sanitario e quali sono i principali sintomi da riconoscere?
“Lo scompenso cardiaco è la patologia che impegna maggiormente il sistema sanitario, perché è tutt’ora gravata da un elevato tasso di mortalità e re-ospedalizzazione. Per incidenza interessa 3 casi su 1000 l’anno in Europa, con una prevalenza tra l’1% ed il 2% degli adulti, che aumenta sensibilmente con l’età, rappresentando meno dell’1% sotto i 55 anni, ma più del 10% sopra i 70 anni. Nonostante i progressi della medicina la mortalità ad un mese da un ricovero acuto si aggira ancora attorno al 10%, ad un anno al 20% ed a 5 anni al 53%. Si presenta quindi come una malattia con mortalità intermedia tra i tumori ad andamento favorevole (colon, mammella) e quelli ad andamento sfavorevole (pancreas, polmone). Certamente tra le malattie cardiovascolari è una delle più impegnative”.
“Il meccanismo che sta alla base è l’incapacità del cuore di mandare in circolo tutto il sangue che gli arriva. In alcuni casi riesce a farlo ma a prezzo di aumentate pressioni di riempimento.
Questo comporta un accumulo di liquidi nei distretti a monte:
- polmoni nel caso del cuore sinistro,
- circolo periferico (arti inferiori ed altro) nel caso del cuore destro.
Possiamo allora comprendere con facilità la possibile gamma di sintomi con cui si può presentare la malattia: mancanza di fiato (dispnea), gonfiore alle caviglie (il cosiddetto edema declive), affanno, ridotta tolleranza all’esercizio. Questi sintomi sono tuttavia piuttosto aspecifici e rendono difficile la diagnosi, per questo bisogna sempre rivolgersi al medico di famiglia che potrà, in caso di sospetto della malattia, indirizzare verso gli accertamenti necessari e la valutazione di un cardiologo”.
Cause e strategie
Quali sono le principali cause dello scompenso cardiaco e quali strategie sono più efficaci per prevenirlo e gestirlo?
“La causa maggiore dello scompenso cardiaco resta la cardiopatia ischemica (la malattia delle coronarie), che si può ritrovare fino ai 2/3 dei pazienti con scompenso cardiaco; la seconda causa è l’ipertensione arteriosa. Vi sono poi moltissime altre cause tra cui: patologie valvolari, aritmie, cardiomiopatie, cardiopatie congenite, malattie metaboliche (soprattutto il diabete mellito), malattie infettive (HIV, miocarditi ed altre), tossicità da farmaci (alcuni chemioterapici) o da sostanze (alcool, stupefacenti), malattie infiltrative, malattie neuromuscolari, patologie renali e polmonari croniche. Pertanto per prevenire lo scompenso cardiaco occorre sostanzialmente condurre una vita sana con una dieta equilibrata, evitare il fumo, praticare regolare attività fisica aerobica e controllare i fattori di rischio come l’ipertensione”.
“Quando la malattia si è instaurata è importante farsi seguire da uno specialista che si occupa di scompenso cardiaco, così da poter instaurare prima possibile tutte le terapia necessarie. Si è visto infatti dai recenti studi come l’instaurarsi precoce di una terapia completa riduca sensibilmente mortalità e re-ospedalizzazioni. Allo stesso tempo è fondamentale che il paziente ed il caregiver prendano consapevolezza della malattia per poter adottare quelle modifiche dello stile di vita decisive per tenere sotto controllo la malattia, come la riduzione dell’assunzione di liquidi durante la giornata”.
Due principali forme
Quali sono le principali forme di scompenso cardiaco e in che modo differiscono per quanto riguarda diagnosi, trattamento e prognosi?
“Esistono sostanzialmente due forme di malattia: lo scompenso cardiaco a funzione ridotta e lo scompenso cardiaco a funzione preservata. La classificazione, per la verità, prevede ormai da diversi anni anche una forma intermedia a funzione moderatamente ridotta ma, all’atto pratico, in base alle sue caratteristiche, essa si assimila più all’una o all’altra delle due forme principali. Sono due manifestazioni di malattia molto diverse, anche se convergono spesso nella sintomatologia e purtroppo anche nella severità della prognosi e nelle frequenti re-ospedalizzazioni”.
“Lo scompenso cardiaco a funzione contrattile ridotta riguarda quei casi in cui il ventricolo sinistro, per un pregresso insulto ischemico, o per svariate altre cause che prima abbiamo enumerato, ha una frazione di eiezione inferiore o uguale al 40%, quindi vi è un vero e proprio danno di pompa. In questo gruppo di pazienti si è ormai consolidato negli ultimi anni, oltre al diuretico, l’utilizzo di 4 principali pilastri di terapia farmacologica (inibitori del RAAS, betabloccanti, antialdosteronici, gliflozine), che andrebbero instaurati e titolati prima possibile, in quanto la loro precoce associazione riduce sensibilmente mortalità e recidive di ricovero”.
“Lo scompenso cardiaco a funzione contrattile preservata riguarda invece quei casi in cui la funzione contrattile del ventricolo sinistro è superiore o uguale al 50% e quindi non c’è un deficit di pompa, quanto piuttosto una ridotta compliance della camera ventricolare che porta ugualmente a non mobilizzare il sangue in modo adeguato, facendo ristagnare i liquidi negli interstizi. Questi pazienti, che potrebbero sembrare più ‘facili’ da trattare, sono invece caratterizzati da una grande quantità di co-patologie e pertanto la cura più adeguata è proprio l’adeguata gestione di tutte le patologie. Mentre, tra le terapie standard, oltre ai diuretici, hanno recentemente trovato posto le gliflozine e ripreso significato gli antialdosteronici”.
I peptidi natriuretici
Qual è il ruolo dei peptidi natriuretici nella diagnosi, nella prognosi e nella gestione terapeutica dello scompenso cardiaco?
“I peptidi natriuretici hanno sempre avuto un ruolo importante nella diagnosi, nel follow-up e nella prognosi dei pazienti affetti da scompenso cardiaco. Essi sono sostanzialmente espressione di un sistema ormonale endogeno che si iper-esprime quando si manifesta il sovraccarico di liquidi tipico dello scompenso cardiaco, attivando una natriuresi spontanea”.
“Occorre infatti precisare che negli anni è cambiata la chiave di lettura fisiopatologica con cui si è approcciato lo scompenso cardiaco. Da una visione emodinamica (il problema del deficit della pompa cardiaca e dell’aumento delle pressioni di riempimento di cui parlavamo prima) si è infatti passati ad una visione neuro-ormonale della malattia, in cui si iper-attivano tre sistemi:
- sistema renina/angiotensina/aldosterone
- sistema simpatico
- sistema dei peptidi natriuretici.
Solo che, mentre i primi due si attivano sfavorevolmente, l’ultimo esprime un sistema endogeno di compensazione che aiuta ad eliminare i liquidi in eccesso”.
“Per questo l’aumento dei peptidi natriuretici (probnp e bnp) rappresenta un importante elemento diagnostico, soprattutto per il suo valore predittivo negativo (se sono bassi la diagnosi di scompenso cardiaco si può escludere con certezza). Hanno grande significato anche in termini prognostici: se si abbassano con la terapia questo è indice di una buona risposta alla malattia. Sono perfino diventati un importante bersaglio farmacologico di una particolare classe di farmaci che si usano con grande beneficio nei pazienti a funzione contrattile ridotta: gli ARNI, che sono un tipo particolare di inibitori del RAAS”.
“Infine si è provato ad utilizzarli come indicatore per guidare la terapia, ma in quest’ultimo ambito non hanno dato risultati favorevoli. Si è infatti compreso che non è l’elevazione in sé dei peptidi natriuretici che deve spingere a modificare la terapia, ma vanno sempre contestualizzati insieme alla clinica ed agli altri esami strumentali. Un loro incremento isolato senza altre manifestazioni potrebbe rappresentare un dato aspecifico e correlato con altre problematiche cliniche, non necessariamente lo scompenso cardiaco”.
Commento finale dell’esperto
Vuole aggiungere un commento finale?
“Sono più di 15 anni che mi occupo di scompenso cardiaco, è un ambito che mi ha sempre appassionato perché per curarlo bene devi conoscere un po’ tutta la medicina. Come ho cercato di spiegare è una malattia molto complessa che è sottesa da numerose cause. Quello di cui mi sono reso conto negli anni è che il modo migliore per curarlo è individuare il meccanismo/i meccanismi principali di malattia e su quelli agire. Se infatti riusciamo ad agire sulle principali cause riduciamo sensibilmente la mortalità e talora osserviamo un significativo miglioramento della funzione del ventricolo sinistro”.
“Senza dubbio i progressi nella terapia farmacologica hanno giocato un ruolo decisivo nel modo attuale di approcciare la malattia. Ma gli stessi 4 pilastri di terapia di cui abbiamo accennato nello scompenso a funzione contrattile ridotta, se da una parte rappresentano un’arma fondamentale, dall’altra rischiano di essere una iper-semplificazione indebita”.
“Se ad esempio il meccanismo che sottende una disfunzione severa del ventricolo sinistro è un’aritmia come la fibrillazione atriale, su quella dovrò agire riportando il paziente in ritmo, se una severa malattia delle coronarie, quella dovrò trattare con un’adeguata rivascolarizzazione. Per questo il fattore decisivo è la personalizzazione della terapia che va valutata attentamente in ciascun paziente e questo è il bello del mestiere: una sorta di abito da ritagliare su misura paziente per paziente, cercando di riportare il cuore a funzionare come si deve.
Infine, l’altro fattore che emerge sempre più come decisivo, è il ruolo del follow-up. In un contesto di crisi del sistema sanitario, proprio lo scompenso cardiaco richiama alla necessità di rivalutare spesso i nostri pazienti. Soprattutto nel primo periodo dopo la dimissione. È questa infatti la fase vulnerabile su cui agire precocemente per ridurre le re-ospedalizzazioni e mettere a bordo prima possibile tutti i farmaci e le strategie necessarie per stabilizzare questi cuori fragili. Da due anni ormai nella nostra cardiologia abbiamo avviato un progetto di dimissione accompagnata medico/infermieristica grazie al quale rivediamo tutti i dimessi dal nostro reparto per scompenso cardiaco acuto in modo sistematico ad 1 mese, 3 mesi ed 1 anno. I primi risultati che abbiamo avuto sono molto favorevoli e speriamo possano diventare anche oggetto di diverse pubblicazioni”.
Bibliografia
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- THE ORGANISATION OF OUTPATIENT MEDICAL AND NURSING CLINICS FOR THE FOLLOW-UP OF PATIENTS AFTER HOSPITALIZATION FOR A MYOCARDIAL INFARCTION OF HEART FAILURE – Avanzini F, Amodeo R, Colombo L, Corticelli A, Saltafossi D, Chiappa L, Iacuitti G, Bova C, Paone MG, Elli S, Santambrogio M, Colognesi S, Conti A, Achilli F; a nome del Gruppo di lavoro DIMACC. Assist Inferm Ric. 2024 Jul-Sep;43(3):118-129. doi: 10.1702/4338.43232.
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