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Quanto è realmente pericoloso il vaiolo delle scimmie?

Tempo di lettura: 3 minuti

Secondo un’interessante ricerca internazionale, pubblicata sulla prestigiosa rivista britannica ‘Nature’, bisogna rivalutare la conoscenza sulla malattia soprattutto analizzando le differenze rispetto ai focolai precedenti

L’attuale epidemia globale del vaiolo delle scimmie ha causato alcuni decessi, ma il tasso di mortalità è decisamente inferiore rispetto ai dati storici. È questo il punto di partenza per cui molti ricercatori e scienziati stanno rivalutando il ‘sapere’ generale sul Monkeypox virus. A studiare e analizzare la questione è una ricerca internazionale pubblicata sulla nota rivista scientifica ‘Nature’

Sono oltre 57.000 le persone (certificate) infettate da vaiolo delle scimmie, nel corso dell’attuale e recente epidemia. Di queste sono 22 le morti accertate, il che rappresenta un tasso di mortalità di circa lo 0,04%. Questo dato è significativamente inferiore al 2-3% riportato durante i focolai, causati da un ceppo virale molto simile, negli ultimi decenni in Africa occidentale. Per questo motivo, i ricercatori hanno iniziato a rivalutare ciò che pensavano di sapere sulla gravità del Monkeypox, specie nelle sue forme più severe.

In realtà però, il reale tasso di mortalità è molto probabilmente superiore alle stime attuali: infatti, vari Paesi, soprattutto in Africa, potrebbero non aver ‘catturato’ tutti i decessi di questa attuale epidemia, date le risorse limitate relative a screening e sorveglianze. “Le morti ‘non certificate’ (oltre a quelle confermate) potrebbero aumentare, soprattutto se il virus si diffonde più ampiamente tra le persone ad alto rischio di malattie gravi, come bambini, persone anziane e fragili” – spiega Andrea McCollum, co-autore dello studio e noto epidemiologo statunitense.

Nuovi sintomi rispetto al passato


In ogni caso, oltre alle differenze legate al tasso di mortalità, ci sono anche altre differenze legate alle conseguenze della malattia, si legge nello studio. Nell’attuale epidemia infatti, i medici hanno visto una percentuale di lesioni minore rispetto ai focolai passati. Ma allo stesso tempo, c’è stata una percentuale maggiore di lesioni relative ai tessuti mucosi del corpo. Al contrario, in precedenza apparivano principalmente sulla pelle delle mani, dei piedi e del volto. “Le lesioni della mucosa non sono intrinsecamente più gravi, ma aggravano il tessuto sensibile” – afferma Jason Zucker, partecipante della ricerca e infettivologo presso la Columbia University di New York. “Le lesioni della mucosa possono quindi causare dolore immenso e interferire con attività quotidiane come il mangiare”

Queste lesioni sono anche più difficili da identificare e caratterizzare rispetto alle lesioni cutanee. Ciò significa che la scala di gravità del Monkeypox raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che utilizza il numero di lesioni come un “proxy” per la gravità della malattia, potrebbe aver bisogno di qualche messa a punto – dice McCollumO ancora, due persone che sono morte in Spagna hanno sviluppato l’encefalite, altri il gonfiamento del cervello. Sintomi differenti rispetto al passato, ma in realtà non del tutto sorprendenti. Non sorprendenti perché l’encefalite, ad esempio, è una complicanza rara di molte malattie virali dunque è possibile, per quanto raro, che possa scaturire anche del Monkeypox”. 

“Il Monkeypox potrebbe essersi evoluto dai focolai precedenti”


Anche Jonathan Rogers, neuropsichiatra dell’University College di Londra e co-autore della ricerca, ha espresso importanti dichiarazioni in merito. “Dobbiamo andare oltre il semplice considerare il vaiolo come una malattia della pelle e delle vie respiratorie. Il Monkeypox potrebbe essersi infatti evoluto dai focolai precedenti. Inoltre – conclude Rogers – gli scienziati stanno imparando nuove cose su di esso a causa della popolazione più ampia e geograficamente più diversiicata che ora sta interessando”.

Insomma, il succo dello studio è che, come tanti altri virus, anche il vaiolo delle scimmie può essersi evoluto. E può evolvere ancora. Bisogna dunque rivalutare le ipotesi e le ‘credenze’ relative a questa patologia. Ulteriori ricerche saranno necessarie per capire anche e soprattutto quali sono le persone più a rischio di infezione delle forme più severe di questo virus. 

Qui l’estratto pubblicato su Nature.

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vaiolo delle scimmie





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