Un’interessante ricerca elaborata da esperti internazionali, pubblicata sulla prestigiosa rivista britannica ‘The Lancet’, mette in evidenza potenziali rischi derivanti dallo smart working
A cura di Davide Pezza
Siamo così sicuri che lo smart working non possa peggiorare la condizione mentale dei lavoratori? Parte da questa domanda un interessante studio condotto da tre ricercatori d’oltreoceano: l’australiano David Fang, la canadese Sonia K. Kang e la statunitense Sarah Kaplan. Le tre esperte figure hanno infatti messo in discussione la ‘sicurezza’ del lavoro da casa, evidenziando una serie di motivi per cui l’ormai ‘famoso’ smart working potrebbe essere in realtà deleterio per determinate categorie di persone. In particolare sono le donne la categoria su cui è posta la lente di ingrandimento. Lo studio è stato pubblicato sulla nota rivista britannica ‘The Lancet’. (Qui lo studio integrale).
“Autorità globali come l’OMS e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – si legge nell’estratto – hanno proposto interventi per migliorare l’esperienza di telecomunicazione. Ad esempio come stabilire strategie di confine tra lavoro e vita privata, come progettare luoghi di lavoro ergonomici e remoti mantenendo regolari interazioni sociali. Tuttavia le potenziali conseguenze negative rimangono sottovalutate. Una di queste è relativa alla condizione mentale delle donne, potremo dire quasi un problema di genere. Quando le donne lavorano da casa, segnalano un aumento sproporzionato del lavoro domestico, disturbi legati all’assistenza all’infanzia e calo della produttività e della salute mentale. Se non affrontate, queste conseguenze dello smart working rischiano di esacerbare le attuali iniquità di genere nell’avanzamento della carriera. Ma soprattutto nella salute e nei diritti”.
“Il 62,3% delle donne statunitensi che ha lavorato da casa ha segnalato due o più nuovi problemi di salute mentale”
“In generale, le donne hanno maggiori probabilità di ricorrere allo smart working rispetto agli uomini, sia prima che dopo la pandemia COVID-19. La cosa preoccupante è che hanno anche maggiori probabilità di segnalare problemi di salute mentale. Ad esempio, durante la pandemia COVID-19, il 62,3% delle donne statunitensi che ha lavorato da casa ha segnalato due o più nuovi problemi di salute mentale. Problemi come depressione, solitudine, ansia, stress. Ma anche cali acuti in termini di soddisfazione sul lavoro, impegno ed efficienza”.
“Inoltre, il genere femminile ha segnalato tassi più elevati di affaticamento rispetto agli uomini, a causa di ore extra trascorse sul lavoro e non retribuite. In generale il crescente divario di genere nel settore delle telecomunicazioni potrebbe esacerbare le attuali disparità retributive e di promozione che le donne già sperimentano rispetto agli uomini. Il tutto influenzando negativamente la salute delle donne”.
Le conclusioni e le possibili soluzioni
Nella parte finale dell’estratto pubblicato su ‘The Lancet’ gli autori dello studio rimarcano anche i benefici del lavoro a distanza, sottolineando però sia l’importanza di non sottovalutare le potenziali negative conseguenze, in parte sopra citate, sia una serie di possibili soluzioni per evitarle. La prima di queste, è di garantire possibilità di promozioni e quindi di avanzamento di carriera anche attraverso lo smart. Nell’ottica americana, la promozione è decisamente più frequente rispetto al nostro Paese, ma ciò vale principalmente per il lavoro in presenza. I ‘tele-lavoratori’ statunitensi, attualmente, hanno infatti infatti minime garanzie sotto questo punto di vista.
La seconda soluzione, secondo i tre esperti ricercatori, è quella di offrire retribuzioni più solide per i lavoratori a distanza, sempre in proporzione al tipo di lavoro. Questo perché negli Stati Uniti, in linea di massima, in uno stesso ambito lavorativo, generalmente coloro che lavorano in smart ricevono stipendi minori rispetto ai lavoratori in presenza. Dunque garantire parità economica aiuterebbe sicuramente, e non poco, i ‘telelavoratori’.
La terza e ultima proposta è relativa alla parità di genere, anche sotto il punto di vista digitale. Si intende quindi la necessità di dare maggiore importanza a quelle categorie che purtroppo vengono ancora oggi discriminate (afroamericani, disabili, omosessuali etc.) in termini squisitamente digitali-lavorativi. Questo studio dunque, ha come fine principale quello di suggerire una serie di cambiamenti atti a migliorare il mondo del lavoro a distanza. E, di conseguenza, evitare problemi di salute mentale per quelle categorie ‘meno protette’, soprattutto nel paese a stelle e strisce.
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